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Lettere A Colori: Descrizioni di dipinti nella corrispondenza di Dante Gabriel Rossetti

Federica Mazzara, University College London

L’esigenza di ricorrere al mezzo poetico per esprimere le sue più intime emozioni e allo stesso tempo il desiderio di servirsi anche del mezzo visivo per dare a queste una dimensione figurativa, portò Rossetti a sperimentare una forma artistica che lo contraddistinse, etichettabile col termine di “opera doppia” (double work). Doppia era, infatti, la sua espressione da un lato verbale, dall’altro visuale. Si trattava per lo più di sonetti scritti per accompagnare “fisicamente” i suoi stessi dipinti, invadendo lo spazio della tela o i suoi margini, come la cornice che veniva, in tal modo, coinvolta spesso nella performance artistica prodotta dalla sua opera. In realtà la “doppia” natura della sua arte, capace di creare dei veri e propri iconotesti, si espresse anche attraverso forme meno evidenti di giustapposizione immagine/testo, se si considera che in quasi tutta la sua arte letteraria, il poeta non riuscì a fare a meno di referenti pittorici, propri e di altri artisti, a partire dai quali egli (de)scrisse e raccontò storie immaginarie. Si pensi al caso dei Sonnets for Pictures, sonetti scritti su ispirazione di quadri di Memling, Ingres, Giorgione, Mantenga, oltre che suoi. Allo stesso modo, le sue figurazioni pittoriche non furono quasi mai estranee alle narrazioni letterarie, di cui rappresentavano una sorta di drammatizzazione del “momento pregnante”. Valga per tutti l’esempio dei quadri ispirati alla Vita Nuova di Dante (The First Anniversary of the Death of Beatrice, The Salutation of Beatrice, Beata Beatrix) che, in una lettera a Charles Lyell, lo stesso Rossetti definì come «un’opera capace di offrire incredibili opportunità d’illustrazione pittorica» @.
La scelta di preferire una forma espressiva doppia, di rimanere dunque a  metà  fra le due arti fu la causa e la conseguenza di un frustrante percorso che  portò Rossetti alla ricerca continua di una modalità   espressiva che gli consentisse di far convivere le sue due passioni: il foglio e la tela, le due facce, in realtà  , di una stessa rivelazione artistica.
In una lettera inviata a Gordon Hake il 21 aprile del 1870 (13) si legge:
Sono convinto di essere principalmente un poeta (entro i limiti delle mie facoltà) e che siano le mie tendenze poetiche a dare valore ai miei dipinti; solo perché la pittura, diversamente dalla poesia, è un mezzo di sostentamento, ho espresso la mia arte poetica principalmente in quella forma; […] molti dei miei dipinti sono solo un mezzo per guadagnarmi da vivere, mentre i miei versi, non avendo fini economici, sono rimasti incorrotti.@
Se da un lato è evidente che Rossetti avesse trovato nella pittura un mezzo di sostentamento, dall’altro è indubbio che dedicò comunque enorme passione e grandi energie a quest’arte, giungendo – soprattutto nella fase finale della sua carriera – ad una sublimazione visuale delle sue più intime emozioni, attraverso, ad esempio, la semplice e reiterata rappresentazione di ritratti di donne dagli sguardi malinconici e allo stesso tempo sensuali. La rispondenza che, soprattutto nella fase finale della sua carriera, Rossetti riuscì a creare tra la parola e l’immagine, è espressione di uno spirito artistico per il quale i due mondi, del visibile e del dicibile, non sono antagonisti bensì coesistenti in un comune orizzonte espressivo.

 

L’abilità intermediale gli consentì fino alla fine di sperimentare ogni tipo di compromesso tra le due arti, che si tradusse in opere affascinanti e ineguagliabili. Jerome McGann, autore di grandi intuizioni sull’opera di Rossetti, ritiene che lo scopo del Preraffaellita fosse quello di «esplorare, sviluppare e utilizzare quanto possibile le dicotomie res/verba, forma/contenuto e immagine/testo. Per Rossetti questo era un progetto perseguibile e perseguito nella misura in cui egli lavorava regolarmente in due regioni liminali: era un artista pittorico e un artista verbale, viveva dunque all’interno e attraverso due forme di linguaggio»@.
David Riede osserva come nel caso di Rossetti e della sua arte doppia non sia corretto, in realtà, parlare di relazione simbiotica fra i due mezzi, poiché egli oscillò sempre tra il principio secondo cui la poesia potesse interpretare la pittura, e quello secondo cui la pittura potesse illustrare la poesia. È certo che la posizione di Rossetti rispetto alle sister arts cambiò nel tempo, come dimostrano le revisioni ai suoi stessi Sonnets for Pictures, in cui si può notare, dice Riede, come nella versione corretta del 1881, la tendenza esplicativa della parola nei confronti dell’immagine sia più forte rispetto alla prima stesura, in cui il sonetto sembra ritrarsi di fronte al mistero ineffabile che si cela dietro il dipinto .@ 
La particolarità di questo scambio interartistico consiste però nel creare, attraverso l’allusione reciproca e spesso la giustapposizione, una sorta di “terza opera”, in cui, come dice McGann, «l’evento liminale determina la programmatica richiesta di una risposta più attenta: sia agli aspetti concettuali del dipinto, sia alle caratteristiche iconografiche del testo» @. Il destinatario dell’opera rossettiana è, infatti, stimolo essenziale e parte integrante della stessa genesi dell’opera. Per Rossetti è centrale il fatto che l’osservatore/lettore venga coinvolto nel mondo immaginario del dipinto e per far questo egli lo guida nell’interpretazione dello stesso, anche se a volte l’esasperato tentativo di esibire la propria ermeneutica finisce col disorientare la lettura autonoma del destinatario.