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Lettere A Colori: Descrizioni di dipinti nella corrispondenza di Dante Gabriel Rossetti

Federica Mazzara, University College London

Non può stupire che un artista così interessato alla ricerca continua di forme di dialogo e omologia fra le due arti, avesse trovato nella pratica della descrizione un perfetto punto di convergenza fra le due ispirazioni.

La questione del double work of art@  nella produzione di Rossetti va considerata essenzialmente come esemplificazione alta dell’urgenza ecfrastica che caratterizzò buona parte della sua produzione poetica, sia che le due espressioni artistiche convivessero in un unico spazio creativo, sia che rappresentassero semplicemente l’una la metamorfizzazione dell’altra. Qualunque fosse la ragione celata dietro questa pratica intermediale, le opere doppie di Rossetti restano dei momenti unici di genialità artistica che pongono l’osservatore-lettore di fronte ad una sfida ogni volta nuova. Il ricettore può decidere di “leggere” i suoi dipinti attraverso le chiavi interpretative di Rossetti, i suoi messaggi verbali, oppure perdersi nei giochi interpretativi suggeriti dallo sguardo misterioso e penetrante delle muse rossettiane – giganti di sensualità.
La scritta dentro il dipinto o sulla cornice, il sonetto ispirato ad esso, e a volte inserito nella stessa tela, la lettera inviata all’amico o al familiare per descrivere il suo quadro, sono dei “rituali” ecfrastici – momenti di auto-consapevolezza artistica – che ossessionarono l’artista fino alla fine, quando, ad esempio, sul letto di morte scrisse all’amico:
Mercoledì, [5 aprile, 1882]
 
Mio caro Watts,
Avevo in qualche modo eliminato una coppia di sonetti che illustrano la Sfinge. Se dovessi usare il disegno introduci per favore i sonetti o scrivi almeno qualcosa che sembri spiegarlo.
 
Affettuosamente tuo,
D. G. Rossetti@
Quest’ultima volontà rappresenta la cifra della sua scrittura ecfrastica, di cui evidentemente Rossetti si serviva per chiarire e semplificare la ricezione delle sue opere visuali. Il timore che il messaggio del suo dipinto potesse essere filtrato dall’interpretazione dell’osservatore, fu lo stesso che portò Rossetti a costellare i suoi quadri di messaggi scritti – una sorta di giustificazione verbale delle sue intenzioni pittoriche – che probabilmente celavano la volontà di giustificarsi moralmente agli occhi di chi, soprattutto nella seconda fase della sua carriera, cominciò a vedere nei suoi quadri l’espressione di una mente perversa e immorale rispetto ai canoni della puritana epoca vittoriana. Oppure più semplicemente, come osserva Riede, Rossetti si serviva dei commenti verbali alle sue immagini per includere ciò che, per qualche ragione, non era riuscito ad inserire nel disegno o dipinto originale.
L’esperienza ecfrastica di Rossetti si espresse attraverso formule anche meno evidenti del sonetto o della lettera. L’uso di note d’accompagnamento ai suoi prodotti pittorici o di citazioni da opere letterarie sue o di altri artisti – con funzione a volte prosopopeica rispetto all’immagine – o ancora gli stessi titoli dei dipinti, e l’uso continuo e indiscriminato di apparati critici con funzione esplicativa che ritroviamo un po’ ovunque (dalla cornice alla predella, dal notebook al sonetto), testimoniano l’esigenza di Rossetti di ricorrere a rituali ecfrastici per denotare e integrare le immagini di riferimento.
Il sonetto, il testo in prosa, la parola furono per Rossetti strumenti di interpretazione e arricchimento della parte figurale della sua arte, ma anche mezzo per esorcizzare il potere dell’immagine di autodefinirsi al di là di qualsiasi interpretazione. È probabile, infatti, che tutta questa vocazione all’ekphrasis fosse dettata dal bisogno da parte dell’artista di controllare e addomesticare le immagini, spesso frutto di visioni indefinibili. La descrizione delle opere d’arte diventa così per Rossetti il mezzo attraverso cui assecondare la propria iconofilia e allo stesso tempo esorcizzare la propria iconofobia, in altre parole il luogo in cui far convergere quelle due opposte tendenze attraverso cui W.J.T. Mitchell definisce l’approccio descrittivo alle immagini: l’ékphrastic hope (speranza ecfrastica) e l’ékphrastic fear (paura ecfrastica)@.
Le lettere raccolte in questo volume rappresentano l’esempio più evidente di volontà di “controllo” delle immagini: la parola cerca con ogni mezzo di esplicitare il significato che l’artista vuole attribuirgli, a volte arricchendo altre volte limitando il senso esposto del dipinto. Questo atteggiamento tradisce una contraddizione di fondo che vede Rossetti da un lato sperimentare simbolismi pittorici al limite del comprensibile, dall’altro utilizzare il mezzo verbale per rendere queste stesse figurazioni ermetiche quanto più intelligibili, indebolendo così quella sospensione ermeneutica che una figurazione carica di simbolismo spesso determina.
L’esperienza descrittiva di Rossetti trova ante-litteram una perfetta corrispondenza nella teorizzazione sull’ekphrasis tipica del dibattito contemporaneo, che ha visto susseguirsi riflessioni più o meno innovative relative alla capacità della parola di presentificare verbalmente un’immagine, facendo appello all’enargeia, al criterio della vividezza, o alla volontà di rappresentare verbalmente una rappresentazione visuale per andare oltre i limiti comunemente imposti dal suo mezzo, la parola. Da Leo Spitzer a John Hagstrum, da Murray Krieger a James Heffernan, da Thomas Mitchell a John Hollander e a Philippe Hamon, fino ad arrivare alle più recenti teorie esposte da Tamar Yakobi@, l’ekphrasis è stata occasione teorica per accettare la sfida avanzata da Lessing, il quale nel suo Laokoon@  aveva sancito la differenza dei due media artistici senza possibilità di compromesso: la poesia è arte del tempo, racconta azioni, mentre la pittura e la scultura sono arti dello spazio, disegnano corpi.